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Vela il ramo
il plumbeo del cielo,
sobbalza il chiaroscuro mosso dal vento che
spira dalla luce.
Piove sull’ardente fiamma di un amore mai nato,
sognato, anelato,
ricamato nella mente dei pensieri lividi
del non ritorno, dell’addio.
Parola di troppo
ha frantumato l’invisibile mistero di un interesse
mai nato nel cuore,
retaggio di mente non chiara
che lo ha chiamato futuro amore
senza sapere il significato di queste personali parole.
Assolo di nuvole mobili nel cielo nero,
minaccia di attacco nel fulmine di quel non detto
gridato con violenza
nel silenzioso negarsi.
Riva lontana dalla compassione,
sponda su cui è difficile avanzare, quasi impossibile,
quando le acque del fiume della rabbia esondano
ricoprendo, nascondendo,
celando anche quel poco di bellezza intravista
nel dialogo placido di due voci innamorate
per fuga dal quotidiano inferno di terrore
di non riuscire più ad amare.
Semmai prima ci sia stata l’attitudine ad amare,
la capacità o una tecnica che
si riesce ad applicare con la maestria dell’inganno.
Tiro alla fune stanchevole,
il tempo scorre,
or ora ha smesso di piovere.
Inutili rintocchi a riparare dell’orologio del pentimento
del non vissuto per timore, per mancanza d’amore,
rimuginando nell’attaccamento a questioni d’onore.
Orgoglio mai pago
condanna della conversazione, della chiarificazione.
Cosa da chiarire?
Il mancato trasporto
o la mancata occasione
di prendere in mano il timone e
stabilire la rotta?
I rami degli alberi rallentano il loro oscillare,
la bacchetta del direttore li invita a scomparire,
lasciando l’impronta nel vento che
ad libitum veicolerà parole mai dette,
azioni mai compiute
nell’eterno infinito del ripetersi di un silenzio impermanente,
duraturo nel vocalizzo del non detto.
L’acqua ha ripreso a cadere copiosa, fine,
abbondante lavacro necessario
imposto dal Coppiere eterno,
adesso nella veste di purificatore,
dismessi i panni dell’orchestrale assurto a direttore
nel dirimere il garbuglio di note sbagliate
di una partitura declamata per orchestra, ma
in realtà parte solista di un niente esistente
rivelatosi nell’inadeguata giustificazione addotta:
macchia d’inchiostro che ha coperto le note in filigrana
per capriccio, ricatto, ripicca
trasformando la melodia dell’Amore in una scaramuccia banale, sferragliante richiamo di scordatura.
Solenne inganno nel buio del tramonto, dell’ora del tramonto, non morte,
ora cadenzata,
non mero tramonto immaginato cremisi,
visto grigio scuro sul finire del giorno.
Plumbeo meridie,
non solo ora del giorno,
anche il nome della sinfonia che
ferma alle prove dello spettacolo,
si diffonderà nel teatro quando il soliloquio del pensiero
prenderà la forma di un discorso esternato
lasciando la non forma di un rimestio
di congetture interiori
ronzio della mente.
Salita al Calvario.
Gabriele Prigioni©